venerdì 29 aprile 2011

BISOGNO DI INNOCENZA

Molto di ciò che sta accadendo, tra catastrofi minimizzate o frettolosamente archiviate dai mezzi di informazione; tra menzogne e volgarità di ogni tipo e tradimenti della politica, palestra di abissali incompetenze e di voracità privata, mi spinge a cercare tra i miei libri un antidoto. Voglio riportare all’attenzione di chi si lascia distrarre dalle contingenti miserie quotidiane che occupano invariabilmente le prime pagine dei giornali e dei media, le vittime innocenti (creature umane, tra cui tanti bambini, animali di tutte le specie) dell’uranio impoverito, disseminato in territori italiani, come la Sardegna, attraverso finte esercitazioni militari e in tutti gli scenari di guerra attraverso proiettili e missili a corta e lunga gittata. Il mio antidoto oggi è la scrittrice più innocente e visionaria del Novecento, Anna Maria Ortese (1914-1989).
http://rebstein.wordpress.com/category/anna-maria-ortese/

C’è un mondo vecchio, fondato sullo sfruttamento della natura madre, sul disordine della natura umana, sulla certezza che di sacro non vi è nulla. Io rispondo che tutto è divino e intoccabile; e più sacri di ogni cosa sono le sorgenti, le nubi, i boschi e i loro piccoli abitanti. E l’uomo non può trasformare questo in scatolame e merce, ma deve vivere ed essere felice con altri sistemi, d’intelligenza e di pace, accanto a queste forme celesti. Che queste sono le guerre perdute per pura cupidigia: i paesi senza più boschi e torrenti, e le città senza più bambini amati e vecchi sereni, e donne al di sopra dell’utile. Io auspico un mondo innocente. So che è impossibile, perché una volta, in tempi senza tempo e fuori dalla nostra possibilità di storicizzare e ricordare, l’anima dell’uomo perse una guerra. Qui mi aiuta Milton, e tutto ciò che ho appreso dalla letteratura della visione e della severità. Vivere non significa consumare, e il corpo umano non è luogo assoluto di privilegi.(…) Noi oggi temiamo la guerra e l’atomica. Ma chi perde ogni giorno il suo respiro e la sua felicità, per consentire alle grandi maggioranze umane un estremo abuso di respiro e di felicità fondati sulla distruzione planetaria dei muti e dei deboli – che sono tutte le altre specie – può forse temere la fine di tutto? Quando la pace e il diritto non saranno solo per una parte dei viventi, e non vorranno dire solo la felicità e il diritto di una parte, e il consumo spietato di tutto il resto, solo allora, quando la pace del fiume e dell’uccello sarà possibile, saranno possibili, facili come un sorriso, anche la pace e la vera sicurezza dell’uomo. Da Corpo celeste, Adelphi, 1997

Consiglio la visione del seguente filmato.
http://www.youtube.com/watch?v=-kNVWIdWpG0&feature=fvst

lunedì 10 gennaio 2011

AUGURI

Fiumara d'arte, La Piramide
1 gennaio 2011.
Da qualche giorno, precisamente dal 29 dicembre 2010, sono più aperta alla speranza e voglio regalarne un poco a chi mi legge: quel giorno da un gruppo di cittadini acesi è stato formulato e firmato lo statuto del Comitato civico Terme di Acireale.

La radice della parola speranza si trova identica nelle lingue neolatine e in quelle germaniche, baltiche e slave e indica una proiezione verso desideri che hanno a che fare con un bene atteso. Quando ancora la lingua italiana era lingua di poeti, "Fede è sostanza di cose sperate" felicemente sintetizzava Dante Alighieri, Paradiso in un endecasillabo. Oggi abbiamo laicamente fede che l'azione responsabile e diretta dei cittadini che si assumono le loro responsabilità e lottano per il futuro di tutti, è sostanza, base di appoggio di legittime, ineludibili cose sperate.

COMITATO CIVICO TERME DI ACIREALE


In data 29 Dicembre 2010 si costituisce ad Acireale il Comitato Civico Terme di Acireale.
Il Comitato nasce dalla constatazione del grave stato in cui versano Le Terme di Acireale, per comprenderne le ragioni del declino e per contrastarlo, per promuovere il rilancio delle Terme e del termalismo nella Città di Acireale, elemento caratterizzante e identitario di questa città e del suo territorio.

Il Comitato si propone di:

- mettere in atto tutti gli strumenti opportuni e necessari per porre all'attenzione dell'opinione pubblica cittadina, provinciale e regionale la difesa ed il rilancio delle Terme di Acireale.
- organizzare Incontri, Conferenze, Convegni e manifestazioni che sottolineino il valore storico, culturale, sociale, sanitario ed economico delle Terme e del Termalismo ad Acireale.
- promuovere incontri con le articolazioni sociali, economiche e culturali del Territorio Acese al fine di coinvolgere nel proprio obiettivo le migliori energie, chiedendo loro di aderire al Comitato.
- chiedere incontri con l'Amministrazione delle Terme e con le Istituzioni di livello Comunale, Provinciale e Regionale, in uno spirito collaborativo e di confronto.
Il Comitato prevede un organismo interno, la Commissione Tecnica, con il compito di raccogliere la documentazione necessaria per approfondimenti di ordine storico, tecnico, sanitario, legislativo, economico.
Possono aderire al Comitato cittadini, movimenti e organizzazioni culturali, club service, sindacati, associazioni. Non possono aderire partiti o organizzazioni a dichiarato carattere politico.
Il Comitato decide a maggioranza dei suoi aderenti presenti al momento del voto. I verbali delle sedute del Comitato vengono custoditi a cura della Commissione Tecnica.
Il Comitato nomina uno o più Portavoce, un Addetto ai rapporti con la Stampa e il Coordinatore della Commissione Tecnica.

Il Comitato Civico Terme di Acireale ha sede presso il Palazzo di Città di Acireale.

L'11 gennaio p.v.il comitato si riunirà per definire le modalità di firma del documento da parte dei cittadini, ma soprattutto per mettere a disposizione dei cittadini nuovi documenti sulla situazione dell Terme.

sabato 1 gennaio 2011

INSIEME PER FARE RINASCERE LE TERME DI ACIREALE

Martedì 7 dicembre 2010 la cittadinanza di Acireale a mezzo inviti e manifesti è stata convocata presso la sala Conferenze della parrocchia S. Paolo di Acireale per discutere del declino della principale azienda pubblica della città, una volta motore economico e culturale di tutto il territorio. Argomento principe della discussione il degrado in cui versano attualmente gli impianti termali ad Acireale e in tutta la Sicilia. Con la legge regionale n.10 del '99 la Regione aveva decretato, infatti, la privatizzazione delle Terme di Acireale e di Sciacca, una volta promotrici di attività economiche e culturali di alto livello. Il termalismo acese dalla metà dell’Ottocento e fino agli anni ’70, raggiungeva un vasto bacino di utenti di ogni ceto sociale provenienti da buona parte del territorio nazionale e anche dall'estero, rispondendo non solo alle esigenze terapeutiche, ma offrendo importanti eventi culturali che si integravano allora con una raffinata offerta turistica. Non dimentichiamo che dal 1967 e fino al 1989 Acireale fu sede di una Rassegna di Arte contemporanea Acireale turistico-termale, promossa dall'allora direttore delle Terme, dott. Grassi Leanza, tra le più vive nel territorio italiano, in tempi in cui pochi erano in grado di comprendere il potenziale creativo degli artisti contemporanei. Oggi, a più di dieci anni dalla legge, l'obiettivo della privatizzazione è fallito, le Terme di Acireale sono state smantellate e sono a un passo dal fallimento totale, nonostante la rilevanza del loro patrimonio immobiliare, compreso il bacino delle acque termali cui attingevano. Molti nel tempo hanno stigmatizzato gli sprechi e la cattiva gestione dell'Ente Terme, ma fino ad ora nessuna aggregazione di cittadini si era mossa nell’ottica della difesa del benessere della città e del territorio, per intervenire dal basso contro il rischio di distruzione di un vasto patrimonio che a tutti appartiene. Le Terme infatti sono o, meglio, erano il più cospicuo patrimonio immobiliare pubblico della città di Acireale. L'ultimo atto dello scempio è stato nello scorso anno la nomina di un commissario liquidatore.
Nei primi giorni del dicembre 2010 invece, un gruppetto di cittadini convoca un pubblica conferenza-dibattito per affermare che far rinascere le Terme di Acireale è possibile. Al tavolo il deputato nazionale del PD, on. Giuseppe Beretta, il segretario provinciale Luca Spadaro, il capogruppo PD locale, Giuseppe Cicala, il segretario del circolo Pd di Acireale, Antonio Raciti, in base ai documenti in loro possesso, hanno analizzato e denunciato la realtà dei fatti. Tra gli intervenuti nel corso del dibattito, Salvatore La Rosa ha sottolineato come molto grave la decisione di vendere a privati non bene individuabili non solo le strutture di cura e alberghiere delle Terme, ma anche la concessione delle acque, bene prezioso della città da più di un secolo e donato per intero al comune dal Barone Agostino Pennisi di Floristella negli anni Cinquanta. Su quanti ricade la responsabilità della crisi irreversibile delle Terme, che pure si erano dotate di nuovissimi impianti? Il personale delle Terme, medico, paramedico e amministrativo, allo scopo di evitare lo scandalo dei licenziamenti di massa, è stato via via disperso in varie amministrazioni in cui, senza possedere alcuna competenza, ormai staziona praticamente inattivo e a spese della Regione, cioè di tutti i cittadini. Di contro, da tempo sono state date a varie strutture private che operano all'insaputa di tutti, o quasi, nella stessa via delle Terme, là dove sono allocati gli stabilimenti termali dismessi, le concessioni per l'uso delle acque. Pochissimi tra i presenti sapevano che oggi una SRL offre al territorio cure e prodotti con il logo delle Terme di Acireale. Chi ha lucrato e lucra su tutto questo? La conclusione amara di La Rosa è che dopo più di 2000 anni (esiste ancora per fortuna il sito archeologico di Santa Venera al pozzo, impianto termale di greci e romani transitati da queste parti, in piena funzione fino a tutto il medioevo, con impianti di calidarium e tepidarium ancora ben conservati a cura della Soprintendenza ai Beni culturali)la nostra generazione è riuscita a distruggere la realtà termale nel territorio del nostro Comune. Gli ambiti entro cui si dovrebbe muovere il Comitato nascente, già ricco di autorevoli adesioni, sono: terme, viabilità, cultura, turismo, sviluppo agricolo, occupazione; a patto, però, di difendere attivamente il patrimonio pubblico da malversazioni e speculazioni indegne e di tenere presenti le buone pratiche degli impianti termali che ben funzionano in tutto il restante territorio nazionale e che da tempo attingono, al contrario delle terme di Acireale, ai Fondi europei in scadenza nel prossimo 2013.
Intanto, nonostante le resistenze degli agenti liquidatori nel fornire la documentazione richiesta, gli organizzatori della tavola rotonda hanno fornito al pubblico una sufficiente quantità di informazioni su ciò che riguarda direttamente i cittadini: il patrimonio termale della città, il benessere delle presenti e quello delle future generazioni, già purtroppo fortemente compromesso, oltre che dalle malversazioni locali, da decisioni prese nelle alte sfere del governo nazionale. sembra sia arrivato il momente che i cittadini di Acireale si sentano pronti ad assumersi la responsabilità di intervenire direttamente, come controllori di pubblici amministratori e di politici, ma soprattutto come animatori di progetti largamente condivisi nel pubblico e nel sociale.

venerdì 31 dicembre 2010

ANCORA COSTITUZIONE ITALIANA E DIRITTI

Oggi, 31 dicembre 2010, dopo un lungo periodo di silenzio, ricomincio a scrivere riferendomi in sintesi a quanto scrivevo su questo blog il 30 gennaio 2010.
Come recita l’art. 1 della nostra Costituzione, “l'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. La nostra patria non è fondata sugli interessi di manager corrotti e di politicanti, ma su diritti inalienabili, tra cui la formazione, su cittadini che partecipano e che costruiscono il loro futuro, sostenuti e garantiti dallo stato democratico. “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.” Non certo come delega assoluta della propria intelligenza e della propria volontà ai ducetti di turno.
Quanti cittadini italiani si stanno impegnando a difendere i diritti proclamati nel 1948 dalla Carta costituzionale, dopo decenni di orribile sudditanza a poteri antidemocratici? Quanti sanno difendersi dal parassitismo politico che invoca tagli e sacrifici a danno dei più deboli (bambini e giovani che non possono accedere, come il popolo grasso, all’istruzione privata a pagamento), mentre non prevede alcun taglio agli sprechi della macchina della politica, della burocrazia, dell’impresa collusa? Quanti cittadini sanno ovunque riconoscere e condannare la propaganda populista? speriamo non siano pochi, a parte gli studenti universitari.
L’art.3 recita, parlando di libertà e uguaglianza “… È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”

Per essere liberi e uguali oggi è indispensabile sapere come rendere effettiva la rimozione degli ostacoli di cui sopra, rappresentati spesso dai nostri governanti,i quali sperano di ridurre così noi e i nostri figli a truppa di pecore impaurite e devote al capo, come effetti della crisi globale. Forse si dovrebbe riscrivere l’articolo aggiungendo a “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale” quelli "di ordine partitico, burocratico e collusivo” .
Nell’art.9 si legge: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.” Non c’è bisogno di ricorrere agli esempi più clamorosi di degrado e di abbandono dei siti archeologici o ambientali che la stampa, a degrado compiuto, deplora con accenti di lutto intollerabili. Dove erano le agenzie e i cronisti mentre si perpetrava tutto questo?
Se non c’è un’inversione di tendenza rispetto al “tutto e subito” dell’edonismo imperante e del feticismo degli oggetti, indotto da un mercato drogato attraverso spot che decretano l’audience dei programmi più imbecilli della programmazione televisiva pubblica e privata; se non si torna alle attività produttive non finalizzate allo spreco, al consumo irrazionale, all’inquinamento, ma vicine ai bisogni e alle vocazioni di ciascun territorio, cosa ci resta da sperare?
Domani parleremo di vocazioni del nostro territorio, quello jonico- etneo.
E di speranza.

martedì 1 giugno 2010

Meditando sulla Sicilia


Portella della Ginestra, 1 maggio 2010, 63mo anniversario della strage

Non ci chiediamo a chi risalga la responsabilità dell’eccidio, se a Giuliano, alla mafia, ai servizi segreti italoamericani. Riflettiamo invece sulla nostra realtà siciliana, mentre rievochiamo la giornata della memoria di quest’anno: c’erano molti anziani, tra cui aderenti alle associazioni ANPI, alcune del Nord Italia, molti residenti dei comuni limitrofi, alcuni forse parenti delle vittime; molti giovani, da ogni parte della Sicilia e famiglie intere, con bambini piccoli, anche neonati. I medaglieri delle vittime della Resistenza si mescolavano con le bandiere rosse dei movimenti dei lavoratori (poche quelle di partito) e con quelle gialle, di associazioni cattoliche. Nell’aria una festa composta, quasi pensosa.
Ci viene subito in mente che era festa anche il primo maggio del 1947, quando da Piana degli Albanesi, da S. Cipirello e da San Giuseppe Jato, circa tremila contadini si erano mossi verso Portella della Ginestra con donne e bambini per tentare l’occupazione delle terre incolte, molti a piedi, alcuni a cavallo su giumente e asini. Era festa di speranza in un giorno bellissimo della primavera siciliana. Sui prati a ridosso della montagna aspettavano l’inizio del discorso del segretario di una sezione socialista locale. Alle sue prime parole: «Cari compagni, siamo qui per festeggiare…» una raffica di armi da guerra, dalle prime balze dei monti Pizzuto e Cometa, massacrava 12 innocenti, uomini, donne, bambini: una di 12 anni, una di appena 8. Cinquantuno i feriti. Scriveva pochi anni dopo Carlo Levi: «Mafia e banditi non sono una stranezza, una malattia improvvisa e casuale, né derivata dai singoli caratteri di razza, ma essi stanno, per così dire, in un crepaccio, in una frattura di una terra senza continuità…stanno acquattati in una piega della storia che molte, troppe bandiere, cercano di nascondere. Mancava, è sempre mancata e ancora manca, una classe intermedia: ma tra il popolo contadino e lo “straniero” c’è sempre stato un abisso, un crepaccio, e qui sta acquattata la mafia» (da Le parole sono pietre 1955). Alla luce di quanto è accaduto dopo, dallo stillicidio degli assassini di attivisti o sindacalisti di sinistra, di cui hanno parlato con ampiezza di dettagli storici scrittori come Luigi Pirandello, Carlo Levi, Danilo Dolci, Vincenzo Consolo, fino alle più recenti vittime e martiri eccellenti, nonostante inchieste, arresti, pentiti e processi che durano all’infinito, il crepaccio sembra allargarsi. Questa, però, potrebbe essere solo una delle cause dell’immobilismo e dell’inefficienza dei governi siciliani che da sessant’anni generano disoccupazione, degrado economico e culturale; e forse si potrebbe mettere nel conto anche la strana riuscita di alcuni politici che dalla Sicilia affluiscono al governo nazionale. Ma per capire meglio la passività fatalistica che ancora affligge il popolo siciliano, i suoi intellettuali, i senza lavoro, coloro che cercano lavoro altrove, è indispensabile andare ancora più indietro nel tempo.
Non parliamo dei fatti di Alcara Li Fusi e di Bronte (1860), allorché l’esercito garibaldino stroncò i violenti moti di rivendicazione di terre da parte dei contadini per non compromettere l’unificazione della penisola inimicandosi i ceti dirigenti isolani; ricordiamo, invece, i Fasci siciliani del 1892, organizzazioni pacifiche che in tutta la Sicilia rivendicavano dai proprietari terrieri condizioni più giuste di lavoro e dai grossi industriali siciliani dello zolfo un trattamento più umano nelle miniere. Le manifestazioni pacifiche, fatta eccezione per la rivolta dei minatori di Aragona, dettate dal bisogno estremo, furono represse nel sangue dall’esercito italiano su ordine del ministro siciliano Francesco Crispi. Ancora una volta si mandava l’esercito italiano a sparare sugli inermi, per sedare le paure dell’elettorato, costituito dai grossi proprietari siciliani, solleciti dei loro interessi e preoccupati che il socialismo italiano appena nato, insieme al verbo di Carlo Marx, divenuto subito popolare tra i diseredati, ne fomentasse ulteriormente i fermenti di ribellione. Ma occorre dire, per ritornare al ‘crepaccio’ già da allora aperto, non solo tra il popolo contadino e quelli, tra i siciliani, che considerava di un’altra razza, ma tra la Sicilia e il Nord, che il Partito socialista italiano aveva preso in anticipo le distanze dal movimento dei Fasci siciliani. In quello che allora accadde si riscontra la stessa logica della strage di Portella; la differenza è soltanto che nel 1947 la repressione muoveva da più oscuri intrecci e coinvolgeva il nuovo stato italiano, da poco uscito dalla seconda guerra mondiale per l’intervento degli alleati e la lotta di Resistenza, di fronte a una Sicilia invasa sin dal 1943 dall’esercito alleato con mafiosi italo-americani al seguito e allettata da tentazioni separatiste. Ugualmente forti erano, però, interessi e paure: gli interessi di chi era uscito dalla guerra in grado di gestire capitali, non sempre puliti, e consensi, la paura che il rinnovato interesse per la rivoluzione proletaria, potesse destabilizzare l’assetto di potere cui aspiravano le nuove classi dirigenti, sancito poi dalle elezioni di aprile del 1948. I manuali di storia vi accennano appena, sicché le nuove generazioni, tenute all’oscuro e frastornate nei comportamenti e nei consumi dalla propaganda mediatica, stentano a capire le radici di tanta disaffezione degli adulti nei confronti dell’impegno civico e della difesa dei propri diritti. Molto probabilmente le ignoravano parecchi tra coloro che sfilavano il primo maggio 2010 con bandiere e medaglieri sulla strada percorsa dai braccianti nel 1947 e che si fermavano commossi nel sacrario sobriamente tracciato su quelle montagne tormentate dalla pietà dei conterranei dei contadini massacrati. Certo negli interventi dal palco, che invocavano fermamente il rispetto della Costituzione italiana, nata dal sangue di tanti morti e dal dolore di un’intera nazione, si coglieva una buona consapevolezza della realtà passata e presente. Kikki Ferrara, segretaria della camera del lavoro di Piana degli Albanesi affermava accorata: «Senza giovani questa terra non avrà futuro. Si sta impadronendo di molti la percezione che non c’è più niente da fare, e allora ci troviamo il politico a cui vendere la nostra libertà. Non limitiamoci alle celebrazioni; essere qui è importante, ma se non riusciamo a tenere vivi i valori che hanno animato gli eroi della resistenza e i nostri morti di Portella, loro saranno morti invano fisicamente e noi intellettualmente, moralmente, civilmente». Non si avvertiva acrimonia di partito o di schieramento ideologico, ma la rivendicazione, dai Poteri dello stato, della difesa e della promozione dei grandi diritti collettivi: democrazia, libertà, scuola, lavoro. Di canti, nel piazzale si sentiva, all’inizio, solo l’inno di Mameli cantato dai bambini delle scuole elementari. Sul prato i sorrisi degli altri bambini, alcuni extracomunitari con le mamme, e i loro sguardi intensi a una festa che non erano in grado di capire, ma che cominciava a farsi spazio tra i loro ricordi d’infanzia.

sabato 13 marzo 2010

Piccolo testamento

Questo che a notte balugina
nella calotta del mio pensiero,
traccia madreperlacea di lumaca
o smeriglio di vetro calpestato,
non è lume di chiesa o di officina
che alimenti
chierico rosso o nero.
Solo quest'iride posso
lasciarti a testimonianza
di una fede che fu combattuta,
d'una speranza che bruciò più lenta
di un duro ceppo nel focolare.
Conservane la cipria nello specchietto
quando spenta ogni lampada
la sardana si farà infernale
e un ombroso Lucifero scenderà su una prora
del Tamigi, dell'Hudson, della Senna
scuotendo l'ali di bitume semi-
mozze dalla fatica, a dirti: è l'ora.
Non è un'eredità, un portafortuna
che può reggere all'urto dei monsoni
sul fil di ragno della memoria,
ma una storia non dura che nella cenere
e persistenza è solo l'estinzione.
Giusto era il segno: chi l'ha ravvisato
non può fallire nel ritrovarti.
Ognuno riconosce i suoi: l'orgoglio
non era fuga, l'umiltà non era
vile, il tenue bagliore strofinato
laggiù non era quello di un fiammifero.
(da "La bufera ed altro")

Il mio Montale, lo rileggo e me lo ritrovo accanto in ogni stagione del nostro presente. Dalla cenere della storia risorgono oppressioni sempre nuove e mettono a dura prova la fede nella vita e soprattutto lo sforzo di salvaguardare da ogni assalto subdolo la propria "decenza quotidiana", a costo di apparire rinunciatari o vili. Ma un poeta ha il suo fuoco, sa guardare nell'ora e nel poi con altri occhi. Lo inorgoglisce la piccola traccia che balugina nella sua parola come speranza: l'affida ai suoi "fedeli" come segno distintivo, symbolon, perchè ovunque possano ritrovarsi.

lunedì 22 febbraio 2010

Di un uomo in un fosso

Il raccontino si può leggere in parallelo con la parabola evangelica del buon samaritano, ma senza il finale animato da carità fraterna. Alla luce del contesto attuale vuole dire che siamo combinati piuttosto male, quanto ad aiuti esterni. Sembrano più caritatevoli i lumaconi e addirittura il rospo, a meno che non siano interpretati come arte da un esteta di dubbio gusto. Vuole dire, però, che dobbiamo/possiamo cavarcela da soli. Quanta ironia...

Di un uomo in un fosso. Parabola
Casa Penale di Turi, 17 giugno 1931
Carissima Julca,
ho ricevuto i tuoi foglietti, datati da mesi e giorni diversi. Le tue lettere mi hanno fatto ricordare le novelline di uno scrittore francese poco noto, Lucien Jean, credo, che era un piccolo impiegato in una amministrazione municipale di Parigi. La novella si intitola "Un uomo in un fosso". Cerco di ricordarmela. Un uomo aveva fortemente vissuto, una sera; forse aveva bevuto troppo, forse la vista continua di belle donne lo aveva un po' allucinato; uscito dal ritrovo, dopo aver camminato un po’ a zig-zag per la strada, cadde in un fosso. Era molto buio, il corpo gli si incastrò tra rupi e cespugli; era un po’ spaventato e non si mosse, per timore di precipitare ancora più in fondo. I cespugli si ricomposero su di lui,
i lumaconi gli strisciarono addosso inargentandolo (forse un rospo gli si posò sul cuore, per sentirne il palpito, e in realtà perché lo considerava ancora vivo). Passarono le ore; si avvicinò il mattino e i primi bagliori dell'alba; incominciò a passar gente. L'uomo si mise a gridare aiuto. Si avvicinò un signore occhialuto; era uno scienziato che ritornava a casa, dopo aver lavorato nel suo gabinetto sperimentale. – Che c'è?, domandò. - Vorrei uscire dal fosso, rispose
l'uomo. - Ah, ah! vorresti uscire dal fosso! E che ne sai tu della volontà, del libero arbitrio, del servo arbitrio? Vorresti, Vorresti! Sempre così l'ignoranza. Tu sai una cosa sola: che stavi in piedi per le leggi della statica e sei caduto per le leggi della cinematica. Che ignoranza, che ignoranza! - E si allontanò scrollando la testa tutto sdegnato. Si sentirono altri passi. Nuove invocazioni dell'uomo. Si avvicina un contadino, che portava al guinzaglio un maiale da vendere, e fumava la pipa: - Ah, ah! sei caduto nel fosso, eh! Ti sei ubriacato, ti sei divertito e sei caduto nel fosso. E perché non sei andato a dormire come ho fatto io? - E si allontanò, col passo ritmato dal grugnito del maiale. E poi passò un artista, che gemette perché l'uomo voleva uscire dal fosso: era così bello, tutto argentato dai lumaconi, con un nimbo di erbe e di fiori selvatici sotto il capo, era cosi patetico! - E passò un ministro di Dio, che si mise a imprecare contro la depravazione della città che si divertiva e dormiva mentre un fratello era caduto nel fosso, si esaltò e corse via per fare una terribile predica alla prossima messa. Cosi l'uomo rimaneva nel fosso, finché non si guardò intorno, vide con esattezza dove era caduto, si divincolò, si inarcò, fece leva con le braccia e le gambe, si rizzò in piedi, e uscì dal fosso con le sole sue forze. Non so se ti ho dato il gusto della novella, e se essa sia molto appropriata. Ma almeno in parte credo di sì: tu stessa mi scrivi che non dai ragione a nessuno dei due medici che hai consultato recentemente, e che se finora lasciavi decidere agli altri ora vuoi essere più forte. Non credo che ci sia neanche un po’ di disperazione in questi sentimenti: credo che siano molto assennati. Occorre bruciare tutto il passato, e ricostruire tutta una vita nuova: non bisogna lasciarsi schiacciare dalla vita vissuta finora, o almeno bisogna conservare solo ciò che fu costruttivo e anche bello. Bisogna uscire dal fosso e buttare via il rospo dal cuore.
Cara Julca, ti abbraccio teneramente, Antonio
da Lettere dal carcere di
Antonio Gramsci